Lo stato di insolvenza si verifica quando un imprenditore non riesce più a pagare regolarmente i propri debiti. Cosa cambia con il nuovo Codice d’impresa e dell’insolvenza
Lo stato di insolvenza si verifica quando un imprenditore si trova in una situazione di difficoltà e non riesce più a pagare regolarmente i propri debiti.
Contrarre debiti quando si ha un’attività è un processo normale, ma se diventano troppi c’è il rischio di non riuscire a soddisfare i creditori. Le conseguenze possono essere gravi e possono mettere in pericolo la sopravvivenza dell’impresa.
È importante sottolineare che lo stato di insolvenza si dichiara quando la difficoltà al pagamento è considerata irreversibile.
L’art. 5 della Legge Fallimentare (R. D. 16 marzo 1942 n. 267), infatti, stabilisce che: “lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
L’utilizzo dell’avverbio “regolarmente” indica che non si può parlare di stato di insolvenza se l’imprenditore ha una momentanea difficoltà a soddisfare una singola obbligazione o poche obbligazioni in un lasso di tempo limitato. Si tratta, invece, di una situazione cronica, ovvero la generale incapacità a saldare i debiti, con il normale esercizio d’impresa, anche in futuro.
Questa condizione è, dunque, sganciata dall’analisi di meri dati contabili o di bilancio. Infatti, anche in presenza di una crisi di liquidità, lo stato di insolvenza non sussiste se l’imprenditore ha ancora sufficiente credito presso le banche ed è, quindi, in grado di ottenere in qualunque momento la liquidità necessaria per pagare i propri debiti.
Cosa causa lo stato di insolvenza
Il rischio di trovarsi in crisi di liquidità, e il conseguente ricorso al debito, incombe su ogni azienda. Un imprenditore, inoltre, sa bene che contrarre dei debiti è un processo inevitabile quando si gestisce un’attività.
Durante il corso della vita aziendale può quindi essere necessario chiedere un prestito a una banca. I problemi iniziano, come già detto, quando i debiti sono troppi e non si riesce più a pagarli.
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Le cause che portano un’azienda in uno stato di insolvenza sono numerose. Possono, per esempio, essere legate a errori di gestione interna o a una inadeguata struttura organizzativa. Nella maggior parte dei casi le ragioni sono però esterne: crisi economica, cambiamenti dei mercati, presenza di competitor più efficienti.
Negli ultimi anni le condizioni dei mercati finanziari globali sono peggiorate, prima a causa della pandemia, poi della guerra in Ucraina. In Italia i rischi per la stabilità finanziaria sono aumentati, come negli altri paesi dell’Eurozona. In questo contesto di accresciuta incertezza, le previsioni di crescita sono state riviste al ribasso, mentre le aspettative di inflazione sono aumentate.
Di conseguenza la vulnerabilità finanziaria delle imprese è in aumento, nonostante il miglioramento nel 2021. I programmi di sostegno alle imprese sono terminati e l’impatto del conflitto si farà sentire sulla crescita delle insolvenze, soprattutto sulle cosiddette aziende zombie, cioè quelle che sarebbero andate in default anche in tempi normali. Secondo le previsioni di Atradius si ritornerà ad un livello normale di insolvenze solo alla fine del 2023.
Nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza
A sostegno delle imprese in difficoltà c’è, però, il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Entrato in vigore il 15 luglio, rivoluziona il concetto di crisi aziendale fino ad oggi prevalente e rappresenta un importante passo avanti nell’ammodernamento del nostro ordinamento giuridico.
Tutto parte dall’idea che lo stato di crisi sia un fenomeno fisiologico, che può verificarsi nel corso della vita dell’impresa. In quanto tale è evitabile, ma qualora sia impossibile da schivare, può essere superato attraverso una serie di interventi interni all’impresa stessa.
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La riforma è stata, infatti, sviluppata nell’ottica di favorire la diagnosi tempestiva della crisi per la salvaguardia della continuità aziendale. Per conseguire questo risultato, la direttiva individua tre settori di intervento:
- quadri di ristrutturazione preventiva per il debitore che versa in difficoltà finanziarie e per il quale sussiste una probabilità di insolvenza, al fine di impedire l’insolvenza
- procedure che portano all’esdebitazione dai debiti contratti dall’imprenditore insolvente
- misure per aumentare l’efficienza delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione.
Un’importante novità è l’eliminazione definitiva del termine “fallimento’’, sostituito dall’espressione “liquidazione giudiziale”. Un cambio di rotta che prende le mosse dal tentativo di evitare il discredito legato all’imprenditore insolvente. All’interno della nuova normativa, infatti, non è l’imprenditore a essere centrale, ma il processo per evitare l’insolvenza.
Per quelle situazioni irrimediabilmente compromesse, il legislatore punta invece a ridurre i tempi e la burocrazia che hanno da sempre caratterizzato i fallimenti d’impresa, garantendo ai creditori l’ottenimento di un, seppur parziale, soddisfacimento del proprio credito.
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La liquidazione giudiziale è da considerarsi comunque come “l’ultima spiaggia”, da attivarsi qualora tutte le altre strade previste dal Codice della Crisi d’impresa non abbiano sortito l’effetto desiderato.
Questa riforma, come già detto, ha lo scopo di preservare l’azienda e contenere il più possibile i rischi di chiusura. Le imprese saranno, così, portate a trasformare questa criticità in un’occasione per adottare strategie più mirate alla gestione del cash flow e, soprattutto, per implementare nuovi strumenti di monitoraggio.