La transizione energetica può scongiurare la probabilità di default delle aziende italiane nei prossimi anni. È quanto emerge dal Rapporto Cerved PMI 2022
“Chi non interverrà sui rischi fisici legati alla crisi climatica avrà nel 2050 il 25% in più di probabilità di default rispetto a oggi e il 44% in più di chi investe”: è questo ciò che emerge in merito alle aziende italiane nel Rapporto Cerved PMI 2022.
Lo studio ha analizzato lo stato delle piccole e medie imprese in Italia nell’ultimo anno. Tra i vari aspetti è stato analizzato proprio come l’immobilismo verso la crisi climatica metta a rischio le attività economiche.
Il Rapporto si inserisce in un contesto molto più ampio. Si è concluso, infatti, nei giorni scorsi, a Sharm El-Sheikh, la COP27. La Conferenza delle Parti è il più importante incontro globale delle nazioni mondiali per affrontare il tema del cambiamento climatico.
La prima Conferenza sull’ambiente si è tenuta nel giugno del 1992 a Rio de Janeiro, in Brasile. L’accordo approvato, denominato UNFCCC, ovvero Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, ha lo scopo di combattere i cambiamenti climatici.
L’impatto del conflitto e della crisi energetica sulle aziende italiane
L’irrigidimento del conflitto russo-ucraino e la crisi energetica legata all’intensificazione dello shock delle materie prime hanno impattato gravemente sullo stato di salute del nostro sistema produttivo, con forti riflessi anche sull’evoluzione del rischio delle imprese italiane.
Una situazione geopolitica che, insieme alla spirale inflattiva, ha ridimensionato le prospettive di ripresa post-pandemia di molti settori e ha rallentato la ripresa della nostra economia. Tra 2021 e 2022 le società a rischio di default sono passate, infatti, da una quota del 14,4% al 16,1% del totale, soprattutto tra le piccole imprese. Il rischio aumenta ulteriormente nel biennio 2022-23.
In uno scenario pessimistico, vale a dire una intensificazione ulteriore del conflitto, il blocco delle forniture di gas e lo stop alle misure del Pnrr, le PMI in area di sicurezza si ridurrebbero dall’attuale 46,7% al 35,7%, mentre quelle rischiose salirebbero dal 5,7% al 7,5% e quelle vulnerabili dal 13,9% al 20,8%.
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Uno stop delle forniture di gas russo avrebbe un impatto negativo sulle aziende italiane, comportando anche gravi problemi di liquidità. Gli effetti peggiori si avrebbero nei settori ad alta dipendenza dal gas e dall’energia, come quelli legati a produzione e lavorazione dei metalli e dei materiali per l’edilizia, o della carta.
Analizzando il rischio di default per macrosettori, nello scenario peggiore si nota che nell’industria e nei servizi le quote di imprese in area di sicurezza calano rispettivamente di 13,8 e 11,6 punti percentuali (da 58,7% a 44,9% e da 45,4% a 33,8%). Particolarmente contenuto è, invece, l’impatto per il settore delle costruzioni.
Quanto ai fatturati reali, nel prossimo biennio seguiranno traiettorie diversificate nei due scenari. Nell’ipotesi più pessimistica, nel 2023 saranno in calo (-1% di media) in tutti i settori ad eccezione delle costruzioni.
Al contrario, in quello moderato i fatturati reali continueranno a salire anche nel 2023, seppur con una decelerazione. Il settore con la maggiore crescita stimata, è quello agricolo (+6,7%), seguito da costruzioni (+4,7%) e servizi (+4,5%). L’industria si ferma a +2,5%.
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Una situazione particolare è quella delle imprese zombie, cioè aziende tecnicamente fallite, ma che riescono invece a sopravvivere grazie ai creditori. Al momento ne risultano attive 13.851, in particolare nei servizi e dell’industria. Un effetto del peggioramento della congiuntura potrebbe essere il riacutizzarsi del divario proprio tra le imprese zombie e il resto del sistema di PMI.
La transizione energetica per scongiurare la crisi
La soluzione per evitare rischi fisici legati alla crisi climatica è investire nella transizione energetica. Complessivamente, l’investimento che le aziende italiane (PMI) dovrebbero sostenere per finanziare fin da ora il processo di transizione è di circa 135 miliardi di euro, entro il 2030.
Nel dettaglio, tali indirizzamenti economici riguardano: per il 79,7% a carico dell’industria (circa 109 miliardi), per l’8% dei servizi (quasi 11 miliardi) e il resto diviso tra costruzioni (4,3%, quasi 6 miliardi), commercio (4,1%, 5,6 miliardi), trasporti e public utilities (3,5%, quasi 4,8 miliardi) e agricoltura (0,4%, 570 milioni).
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I costi da affrontare nel breve tempo sono, dunque, molto elevati, ma una “transizione ordinata” rappresenterebbe la scelta migliore. Serve, però, una partecipazione attiva di vari attori, il sistema politico bancario e, ovviamente, produttivo.
Il Climate Stress Test per le PMI
La BCE ha lanciato, a inizio anno, uno “Stress test” di vigilanza sul rischio climatico, per valutare quanto le banche siano preparate ad affrontare gli shock finanziari ed economici che ne deriverebbero. In particolare, il test mira a identificare le differenze, le migliori pratiche e le sfide che le stesse banche devono sostenere.
Cerved ha condotto uno studio simile sulle PMI, studiando variabili come emissioni, consumi energetici, esposizione al rischio fisico, per valutare la resilienza delle aziende e delle banche stesse ai rischi climatici.
Sono stati messi a confronto tre scenari:
- la transizione “ordinata” (orderly), che procede in modo regolare verso il raggiungimento degli obiettivi di Parigi e concentra i maggiori investimenti nel decennio 2020-2030. In questo caso le emissioni calerebbero rapidamente già nel primo decennio. Inoltre, l’eventuale introduzione di una tassa sul carbone renderebbe conveniente la realizzazione di forti investimenti per ridurre l’impatto ambientale dei processi produttivi
- quella “disordinata” (disorderly), in cui gli interventi sono attuati solo nel biennio 2030-2040, con costi più elevati nel medio termine. Le emissioni, in questo caso, diminuirebbero a partire dal 2040
- lo scenario “serra” (hot house), in cui si interviene in maniera insufficiente, con un conseguente aumento della frequenza e della severità degli eventi fisici.
Emerge, in sostanza, come gli investimenti portino nel lungo periodo a una riduzione della probabilità di default nei due scenari con transizione, che è invece in crescita dal 2030 nello scenario “serra”, quando l’impatto dei rischi fisici si fa più evidente: +25% di rischiosità rispetto a oggi e +44% rispetto allo scenario ordinato.